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Operatrice S.e. Eleonora De Grandis

Ho iniziato il percorso formativo presso l’associazione Sophy iscrivendomi al programma delle escursioni nel 2017. Fu un percorso familiare che coinvolgeva, oltre me, i miei due figli.
Ero alla ricerca di modalità nuove e innovative da inserire nella quotidianità, alla ricerca di significati diversi da quelli ordinari, che ci vedono seguire la scia delle convinzioni societarie, delle mode del luogo e del momento.
Non è stato immediato intuire il potenziale che possiede la progressione coscienziale in natura, perché si è carichi delle stereotipie educative in cui ci siamo assorbiti, che non ci porta a vedere e riconoscere l’analogia tra progressione esterna e progressione/conoscenza interiore.
Ricordo bene le impressioni delle prime volte:

  • la diffidenza a entrare con i piedi nudi nel fondo più melmoso del fiume,
  • la piacevolezza del guadare il fiume nel punto basso e ciottoloso, sassoso, ma anche la scocciatura di farlo più volte. L’ho saputo fare: perché farlo ancora?
  • la resistenza nel farmi aiutare nei punti più impervi: dovevo dimostrare di saperlo fare da sola,
  • il cercare strade più facili per evitare passaggi più impegnativi,
  • l’ansia di entrare in grotta.

La fusionalità con l’ambiente naturale è una caratteristica che sono riuscita a potenziare dopo anni di vissuti ecologici e che mi accorgo che vado a potenziare ogni volta che si affronta un percorso, già battuto o meno: mi ha colpito  la differenza nello stare sotto il getto della cascata senza toccare la roccia verticale e al contrario mettendosi a diretto contatto con essa. In quest’ultimo caso sono riuscita a perdere il giudizio sulla temperatura dell’acqua, mi sono sentita un tutt’uno con l’ambiente, tanto che a parole è difficile descrivere il senso di “compenetrazione” provato.
Il percorso già battuto, il guado già affrontato, la roccia già scalata non diventano ora, con l’attitudine di questo momento storico mio personale, “già visti”, ma motivo di considerazioni sul cosa porto nella quotidianità: si possono sempre accrescere i particolari da visualizzare, quindi può scattare la pratica dell’approfondimento continuo nelle azioni ripetitive, può scattare il modo di guardare la stessa situazione o la stessa persona con “occhi sempre nuovi”, “come se fosse la prima volta che vedo”. Un’altra considerazione è che, cambiando la vegetazione, dopo mesi dall’ultimo sopralluogo, si può avere l’impressione di trovarsi in ambienti sconosciuti, se non si sono presi punti di riferimento fissi: così nell’interiorità, se non abbiamo dei cifrari di riferimento, la vita diventa un arrancare, un vedere la situazione momentanea, ma non la struttura, l’intenzionalità di vita verso cui direzionarsi.
Il “fare da sola” ora è diventata un’abilità, non una rappresentazione: ultimamente mi meraviglio spesso nel vedere quanto cresce la fluidità nel saper trovare velocemente agganci, soluzioni per progredire autonomamente ed essere anche di sostegno ai ricercatori che si uniscono nel percorso, nonostante il mio fisico piccolo e mingherlino. La pratica parla più di mille parole: non si mette più il giudizio a priori riuscirò o non riuscirò o dovrò dimostrare di saperlo fare: si affronta il passaggio e lì, durante, ci si rende conto se chiedere o meno aiuto a un altro io o ai sostegni che naturalmente riusciamo a vedere e a rendere funzionali.
La strada più facile non è più un motivo di attenzione, nella difficoltà vedo quanto mi sono abituata a trovare soluzioni invece che dedicarmi all’abitudine della lamentela, alla scappatoia, alla fuga. Tendo a concentrare l’attenzione sul come affrontare il passaggio, sul corrispettivo interiore che rappresenta la difficoltà o la facilità di progressione.
L’entrare in grotta, in un cunicolo è diventato più semplice, il buio non rappresenta più un deterrente, la paura, ingigantita, che possano esserci animali, anche dopo esserci assicurati che non ce ne siano, è scomparsa. Nel riportare questo atteggiamento nella quotidianità, mi sono accorta di quanto ho allentato l’amplificazione sulla situazione di vita, sul sintomo, sull’emozione che si vive in un determinato momento, in favore della lettura del contesto, che continuamente devo allenare, togliendo molti pregiudizi e animosità accumulati negli anni.

Uno dei miei grandi scogli affrontati è stato il progredire di notte, senza luci e da sola. La prima volta che mi sono trovata a camminare al buio da sola ho notato come riuscivo a rendere una foresta anche solo l’ombra di un cespuglio, ho assaporato cosa significhi valutare il posto, la scena in cui ci si inoltra, prima di entrare nella situazione. Riuscire a rendere effettivo quest’ultima atmosfera, significa saper leggere un contesto prima di intervenire con qualsiasi azione, che possa essere sconcentrare con una chiamata una figlia che legge, interrompere chi sta parlando, mettere dispersori nella nostra stessa concentrazione o intenzionalità prefissata. Ora che scrivo mi rendo conto di quanto l’imprinting sia rimasto, ma non l’effettiva integrazione e applicazione del processo. Durante l’ultima uscita mi sono invece accorta di quanto il buio possa essere “colorato”: la pratica operativa mi ha fatto innescare la visione di tantissime bios-luminiscenze che rendono partecipe il posto, facendomi intuire intellettualmente come si annulli la distinzione tra me (soggetto) e luogo (oggetto), mi hanno fatto presagire l’interazione esistente.
Un’altra difficoltà importante l’ho vissuta durante la prima uscita in forra: sono rimasta mezz’ora circa bloccata sul primo salto del torrente che corre a Prodo. Altri prima di me erano già saltati, quindi pericoli di vita non ne avevo, eppure stavo amplificando una paura, un’azione naturale e gestibile come se invece fosse l’esperienza più significativa nel mondo tanto da avere il pretesto per rallentare la progressione del gruppo, tanto da richiedere più attenzione del dovuto. Nella stessa uscita mi ricordo di quanto la corda mi scorreva poco: mi viene in mente ora che potrei fare tranquillamente l’analogia su quanto mi auto-rallenti nelle azioni quotidiane, quanto mi auto-castri nelle esperienze che dico di voler vivere.
Nell’ultima uscita di torrentismo, la domanda che mi è venuta spontanea, stavo faticando veramente tanto, non mi sono concessa scuse per non faticare, è stata: “Ma chi me lo ha fatto fare?” La risposta mi è sempre più chiara: ciò che Nello, Sophy, identifica con la

pulsione olistico-autopoietica a vivere e a conoscere

che sto cominciando ad assaporare nelle sue sfumature e con la quale sto definendo

In-es la strettoia diveniente innato-olos.


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