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LE CORRENTI DELL’IO-PSYCHÉ IN FORRA

di dott.ssa Gaia RUIA

Sveglia alle 05.00 del mattino: pronti per una nuova avventura E.Co.A. (…)

ma sono davvero pronta???

È la domanda che mi faccio di solito dalla sera prima, sono sempre molto tesa quando so che l’indomani mi devo imbattere in me stessa, così direttamente! Già, mi dicevo durante il viaggio in macchina per raggiungere il posto dell’appuntamento con gli altri, ma non bastano gli allenamenti di Danza autopoietica marziale, le Situazioni durante gli stages, le situazioni di vita che ogni giorno mi trovo ad affrontare con queste nuove ottiche formative, a volte dure da applicare?

La forra, stavolta, mi ha risposto più chiaramente, più intensamente.

Il solo fatto di decidere se partire o no, mi mette di fronte all’assunzione o meno di approfondire l’indagine su di me, ed effettivamente, più si scende in noi stessi, più l’assunzione diventa impegnativa, e le prove si fanno ardue, e così, per l’impegno preso con me stessa ad andare avanti nel gioco formativo, se la formazione, la vita, mi propone questo incontro con la forra, non ha senso tirarmi indietro, ed ecco l’applicazione di uno dei principi attivi dell’andare al centro del cerchio della Danza autopoietica: l’azione nel lucido abbandono di ciò che la vita riserva, per far emergere la strategia autopoietica per trovare il punto di fusione con l’evento, l’altro, noi stessi.

L’acqua sarà fredda, oppure muovendoci stavolta il freddo lo sopporterò meglio, ci sarà tanta acqua o no, mi divertirò o mi farò male, chissà quanto tempo impiegheremo stavolta? e intanto è un nuovo input per il mio Io per produrre pensieri, riflessioni, paure, entusiasmi, divertimenti (…) e, appena arrivata, già penso a ripercorrere la strada fatta una volta uscita dalla forra, quando finalmente sarà tutto finito e potrò rilassarmi: la fretta. Eccola di nuovo: quest’ansia che ho di finire le cose, che se da un lato è portare a termine un impegno, dall’altra è una fuga per non respirare quello che faccio.

Comunque, parcheggiata la macchina, entro in quella dimensione che solo la forra mi costringe ad applicare con continuità: entro nel silenzio del fare e cerco di non dare spazio a nessuna dispersione distrattiva. Il mettere la muta, per me, è un entrare progressivamente in questa dimensione: da adesso in poi tutto il mio Io deve essere presente a quello che sta facendo; il che mi fa pensare: devo aver bisogno della grande difficoltà, del pericolo, per dare continuità alla centralità, al lucido abbandono? E poiché sono facoltà che ho allenato in molti contesti e, in particolar modo in questo, ogni volta che non li applico è un po’ una fuga dall’assunzione?

Il primo passo verso la forra: sto veramente andando incontro al non conosciuto.

La forra rappresenta l’inconscio, la parte profonda di noi, non si sta più in superficie, dove la logica, il pensiero può pianificare, organizzare, pre-disporre: bisogna immergersi per prendere coscienza di ciò che fino a quel momento è inconscio, non conosciuto, e l’immersione, lo scendere in profondità, non è mai un atto del pensiero, ma un lasciarsi andare, senza analisi, è un abbandono delle difese che proprio il pensiero costruisce, difese della logica da quelle correnti che non sa dove la porteranno: è l’Io che non vuole riconoscere le proprie radici e quindi è costretto a muoversi negli ambiti in cui si riconosce.

Eccomi alle prese con i primi massi scivolosi, i primi “rivoli” che mi fanno presagire grosse portate d’acqua. In breve tempo sono circondata dall’acqua, ci sono punti in cui vengo trasportata, è quasi divertente, davanti a me si apre un piccolo slargo dove l’acqua sembra calma, tranquilla metto una gamba avanti per fare il passo e me la sento trascinare avanti da sotto con forza. Vedi, mi dico,

mi ha tradito la visione dell’acqua calma in superficie, la corrente si muoveva sotto!

In effetti, spesso nella vita accade la stessa cosa: quello che si vede in superficie, non è lo stesso che si muove in profondità, infatti, avere una visione superficiale delle cose significa non rendersi conto di altre realtà che pur esistono.

In generale, la manifestazione esterna, visibile, delle nostre pulsioni ha, spesso, un’intensità molto inferiore rispetto al campo di forza da cui nasce.

Spesso non siamo collegati a ciò che muove, ma al mosso, e ciò che appare in superficie diventa interpretabile, per questo il più delle volte proiettivo: andando dentro le questioni, la proiezione si annulla, perché rimane il fatto, puro, non interpretabile, la mia gamba è stata trascinata dalla corrente: è questo il fatto, la mia interpretazione di acqua calma, nel momento stesso in cui ho prodotto il pensiero, non mi ha fatto accorgere che invece la corrente era forte, sotto!

Più si andava avanti, più il flusso si faceva forte, non si poteva far altro che seguirlo, non c’era tempo per pensare a dove mettere i piedi, di valutare quale poteva essere il modo migliore per affrontare quel tratto: più si va avanti nella penetrazione di sé e più l’abbandono, la fusione diventa l’unica strategia applicabile. Ecco che il corpo risponde spontaneamente, con naturalezza autopoietica: le articolazioni si fanno molli, elastiche, permettendo il movimento simultaneo di più parti corporee…e coscienziali, diventa una vera e propria danza con l’acqua.

È affascinante!

È interessante osservare che la botta, l’urto doloroso, avviene solo in presenza di questo disallineamento: il dolore non è qualcosa che esiste nella struttura, anche se ci sono specifici recettori (i nocicettori) o aree cerebrali atte al suo riconoscimento: il dolore, secondo me, è una variazione fondamentale per far prendere consapevolezza della condizione di non allineamento con lo strutturale e, quindi, della condizione di allineamento, o, comunque, che sta avvenendo qualcosa di significativo nel nostro percorso di presa di consapevolezza.

L’intensità dell’acqua si stava facendo sempre più forte e la forra andava sempre più restringendosi, così,

Nello ha deciso di legarci gli uni agli altri in modo che ognuno apriva il percorso all’altro e faceva da contrappeso nel caso in cui qualcuno venisse trascinato dalla corrente: la responsabilità di ognuno diventava la responsabilità del gruppo.

Anche questa facoltà avevamo allenato diverse volte in palestra, per esempio disponendoci in cerchio, per mano, e lasciandoci cadere indietro: il gruppo teneva solo se nessuno mollava la presa. Ecco che allora la danza con l’acqua deve essere un movimento di gruppo, e l’attenzione, la responsabilità si allarga, diventa tutto un gioco di ascolto dell’altro e di guida, di conduzione e di lasciarsi condurre, con alcuni si entra più in sintonia, con altri meno, così come con alcune parti di noi. Può capitare che l’altro non ce la faccia a stare al nostro passo, ed io, a volte, non ho la pazienta di aspettarlo, ma essendo parte del gruppo, è la condizione stessa che mi costringe a rendermi conto di questo, a farmi rilassare dentro e trovare una forma di comunicazione più empatica; viceversa, quando è capitato a me di avere una velocità differente da colui che mi stava davanti, invece di attribuire responsabilità all’altro, come mi è scattato in un primo momento, allo stesso modo ho cercato un modo d’interagire che tenesse conto anche del momento dell’altro.

La forra si faceva ancora più stretta, la possibilità di evitare passaggi difficili si riduceva sempre di più e la portata dell’acqua aumentava tanto da formare concentrazioni sempre più fragorose e bianche: più l’assunzione di scendere dentro se stessi è forte, più la discesa è in verticale, senza più possibilità di vie di fuga. Solo la vista mi spaventava e dopo essere stata schiacciata per un momento, che mi è sembrato eterno, da un flusso molto intenso anche se per un breve tratto, non me la sono sentita di proseguire, sapevamo che da lì a poco ci sarebbero state due cascate di circa nove metri d’altezza con relativa portata d’acqua, così, poiché anche altri non se la sentivano di andare avanti, abbiamo deciso di tornare indietro.

Da una parte mi dispiaceva rinunciare, l’ho vissuto un po’ come una sconfitta, ma a volte è più saggio riconoscere di aver bisogno di forgiarsi di più per tornare più preparati:

essere pronti a se stessi è veramente cosa ardua!

         Anche la risalita non è stata semplice, ha implicato un grande consumo di energia: la Risalita non è un passaggio naturale, si commentava durante il viaggio di ritorno in macchina, è un’azione contro natura, perché il flusso, l’autopoiesi, la vitalità, segue il suo corso, indipendentemente dalla nostra nascita o morte (tutta quell’acqua era lì, con tutta la sua imponenza, e non si curava affatto di travolgermi o salvarmi), ma è uno strumento formidabile affinché l’Io, attraversando le varie correnti istintivo-emozionali, i flussi dei vari stati coscienziali, conosca dal profondo i campi di forza da cui esso stesso nasce, e rendersi conto dell’esistenza del flusso vitale è la nascita dell’Io.


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